L’ultimo avversario di Stephano Giacobini
Le avevano provate tutte, ma ogni tentativo era risultato vano. Ora si ripresentavano con l’ennesima sfida, convinti di battermi, di correre più veloce di me, di arrivare al traguardo prima di me. Finora non vi era riuscito nessuno. Io ero nato per sfrecciare, la corsa era il mio modo di vivere, la velocità la mia essenza. Possedevo una conformazione fisica perfettamente aerodinamica che mi consentiva di scivolare nell’aria sfuggendone l’attrito; ero dotato di una muscolatura potente e dirompente e di un cuore dall’elevatissima gittata cardiaca che mi garantivano al tempo stesso forza esplosiva straordinaria e resistenza illimitata. La mia specialità era il Periplo: la corsa intorno al mondo. Poche e semplici le regole: si può scegliere il percorso che si preferisce, purchè si incroci la linea dell’equatore almeno due volte e in continenti diversi. Nel Periplo non avevo rivali. Nessun uomo era mai riuscito a tenere il mio ritmo vertiginoso, neppure macchine od ordigni vari, appositamente costruiti, si erano avvicinati alle mie prestazioni. Tutti i primati, di velocità massima e di tempo minimo impiegato, erano mio esclusivo appannaggio. Oggi mi attendeva una nuova sfida, e gli Organizzatori mi avevano rivelato molto poco sul mio insolito avversario. Mi comunicarono solo che la gara sarebbe iniziata a mezzanotte precisa. Partenza e arrivo a Greenwich. Pensai all’ennesimo marchingegno dotato di innovativi sistemi di propulsione, o al più perfezionato esemplare di uomo bionico, invece sui blocchi di partenza accanto a me non vidi nessuno. Mancava poco alla mezzanotte ed iniziai ad inquietarmi. Volevano prendersi gioco di me? Lo sfidante aveva forse rinunciato all’impresa? Di fronte alla mia impazienza gli Organizzatori riconobbero di dovermi delle spiegazioni: “Il tuo avversario è qui. Ed è in ogni momento in ogni luogo. Esso è la misura del movimento. Allo scattare della mezzanotte egli sarà partito e arrivato. Sarà già stato ovunque, nel mondo, e quindi anche qui, nell’attimo stesso in cui tu partirai. In ogni istante corre intorno al mondo. E’ l’unico avversario più veloce di te. La tua folle corsa non ti servirà ad anticiparlo”. Solo a quel punto mi fu chiaro contro chi mi accingevo a misurarmi: il Tempo. Avrei dovuto correre contro il Tempo. Immediatamente pensai che avrei avuto una sola possibilità: eguagliarlo, giungere al traguardo contemporaneamente ad esso. E per farlo avrei dovuto correre eccezionalmente veloce. Compresi in un attimo che procedendo rapidamente verso ovest sarei rientrato nel giorno precedente a quello della partenza. E che compiendo il giro del pianeta mantenendomi sempre nelle ventiquattro ore antecedenti, spostandomi a ritroso nei successivi fusi orari, avrei potuto presentarmi a Greenwich alle ore 23 e 59 minuti e 59 secondi del giorno precedente, e tagliare il traguardo alle 00,00,00 del giorno in cui ero partito. Cioè essere lì insieme al Tempo, ma dopo aver effettivamente corso intorno al mondo. Se per gli Organizzatori il Tempo è ovunque e in ogni istante, anche io, con la mia corsa, potevo essere nello stesso luogo nello stesso momento, tornando indietro di ventiquattro ore. Il Tempo impiega lo spazio di un infinitesimo di secondo per circumnavigare il globo terrestre? Bene, io avrei corso intorno al mondo alla sua stessa velocità. La mia prontezza di riflessi, eccezionalmente rapida, mi consentì di scattare appena percepito il segnale del “via”, e in un lampo i potenti muscoli dei miei polpacci mi garantirono la propulsione indispensabile per raggiungere la massima velocità. Potevo agevolmente correre anche sull’acqua, ma avevo bisogno ogni tanto di toccare la terraferma per fare forza con tutta la superficie dell’avampiede, sfruttare al massimo i muscoli estensori ed assicurarmi la spinta necessaria per coprire in breve tempo lunghe distanze. Come una saetta mi lanciai sulle Canarie e Capo Verde, incrociai l’equatore nel mezzo dell’Atlantico e i miei calcoli si rivelarono esatti. Lo sforzo non era stato indifferente, ma ero rientrato nel giorno precedente, e man mano che procedevo verso ovest il giorno in cui ero partito mi inseguiva e io lo anticipavo. Assunsi la posizione più corretta, con le ginocchia portate bene in alto, la testa protesa e lo sguardo in avanti, il tronco dritto, le mani a tavoletta, le braccia piegate a 90° e i gomiti aderenti al bacino pronte ad accompagnare il ritmo infernale imposto dalle gambe. E fu verde Amazzonia, bianco Ande, azzurro Pacifico. Polinesia e Melanesia mi fornirono comodi appoggi per i miei scatti brucianti come il sole dell’Australia. A Sumatra incrociai per la seconda volta l’equatore, puntai con agilità sull’India e rientrai nel buio prima di solcare come una folgore le immense distese desertiche dell’Arabia. Mille luci e un’aria un po’ pesante mi annunciarono l’Europa, Londra, la meta.Il mio avversario era già al traguardo quando fu mezzanotte, eppure arrivammo insieme.
Stephano Giacobini
(autore del romanzo L’Isola degli Uomini Superflui, ed Spoon River)